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Il bosco visto dai “senza patria”

Breve commento di Danilo Magnini e un estratto con 3 riflessioni sul bosco tratte dal libro di Giuseppe LisiSENZA PATRIA – La cultura dell’analogia e la scomparsa del popolo contadino”, edito nel marzo 1987 dalla Libreria Editrice Fiorentina. La foto è presa dalla copertina del libro

Emerge un mondo senza luogo e senza tempo, vissuto intensamente e popolato da esseri reali e immaginari. Quando la ‘cultura’ contadina è scomparsa – quella toscana descritta dall’autore almeno sei-sette decadi orsono – è cominciato anche l’abbandono del bosco, quello curato dall’uomo, che si è trasformato prima in ‘selva’ nel significato dantesco – metaforicamente spazio-temporale – di transito incerto e periglioso, poi in ‘foresta’ quando la natura universale ne riprende il controllo. Però quest’ultimo passaggio non è avvenuto: l’uomo ha nuovamente sottratto il controllo al bosco, non più da contadino ma come dominatore e rapinatore; allora la selva non riesce a trasformarsi in foresta, e precipita nel non-luogo, nella terra desolata. Solo un intervento consapevole potrà invertire la tendenza: vista la perdita irrimediabile del mondo descritto da Lisi, l’unica speranza è quella di … non fare! Cioè di donare nuovamente il bosco alle dinamiche naturali.

Ora facciamo ‘parlare’ l’autore.

  La porta del selvatico   La pianura si interrompe a un quadrato di bosco dove sughere, lecci e pini convivono con specie profumate ma aspre quali ginepri, scope, rusco … una foresta oscura ed insidiosa nonostante che dalla prossima collina appaia come un magnifico, ordinato dado di verde. Il sentiero che si apre si perde presto nel fittume. È dimenticata la campagna aperta ed assolata che pure non dista molto ai quattro lati e nasce la paura di potersi perdere e di essere smarriti. La parte che fruisce dell’ordine delle analogie (dopo averne guidata la scelta) incomincia a sentirsi non indifferente. Ha coscienza della responsabilità della prova e di aver previste e sottaciute le difficoltà presenti al fine che si verificassero, ora che il corpo e le abitudini si sottraggono alle regole che una volta imposero. Il viaggio si tramuta del tutto. I piedi e le mani non fanno che aiutare l’anima che ha preso il sopravvento e vorrebbe sbrogliarsi da sola. Ha l’anima qualcosa di materiale; l’intrico dei rami la stanca e ferisce; assai meno del corpo, tuttavia sensibilmente piega le frasche, le erbe e gli spini e li raduna su di sé nel passare. Come la lente che avvicina gli intervalli tra le parti senza eliderne una, trattiene sul suo lucido piano quello che è tra sé e il riaprirsi della speranza. Nel centro del bosco è come stretta in un paniere: da tutte le parti è chiusa e soffocata. Eppure ha deciso di provare.  
  Il bosco come ignoto   Camminando sente il fruscio del manto regale. All’ingresso del bosco, raccoglie come può le ali e ripiega nel sacco i nastri e le vesti, ma sa di non poter impedire che più di un lembo resti tra gli spini. Provi chiunque soltanto a portare indosso una maglia, come viene trattenuto. Molte fiabe descrivono la foresta dove si entra per mutare il proprio stato a torto o a ragione divenuto intollerabile, oppure per caso o sorte costretti dalla necessità a soffrire le conseguenze. La persona ne esce diversa. Anche il mondo di là non è uguale. Non entrare a cuor leggero se manca il motivo! Le donne per far legna, funghi e fragole, si tengono ai margini e ai sentieri, e quando si allontanano non perdono di vista un riferimento.   Se ogni fortuna può nascere di là, la perdizione è possibile. Si giunge dapprima alla casa dell’Orco; poi delle volte fino al palazzo del Re. La fiaba non prende in considerazione avventure che non abbiano un possibile risvolto positivo. Le storie esemplari non sono tramandate per condurre alla disperazione.  
  Dentro e oltre l’intrico   Il bosco rispetto al coltivato è come la notte col giorno, la nebbia nei confronti del sereno, il sotterraneo col cielo. Entrare nel selvatico è l’ultima opportunità, il varco concesso per fuggire l’universo di cultura fattosi incombente. Per questa strada che figura la rinuncia e l’abbandono, inizia ogni volta in modo diverso il cambiamento. Ad ogni pruno si spezza un filo di memoria: via via che il bosco si infittisce e diventa un ginepraio, la mente perde i riferimenti … La negazione spaziale, non periodica come la notte e gli omologhi dell’inverno e del freddo, è affine alla morte che contempla la sola possibilità di transito mediante una mutazione di stato. Nella narrazione delle fiabe il momento del distacco che è di annientamento, vede risplendere un lume lontano o giungere l’eco di una caccia. Senza ancora essere una risoluzione annuncia tuttavia la grazia che il viaggio prosegue anzi riprende. Va detto che nella terra di nessuno appena traversata molti persero d’identità senza acquisirne una nuova e poter raccontare di sé.  

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